So che è un argomento un po’ “scabroso” per gli stacanovisti del lavoro. Del resto, essendo io uno di loro sia per attitudine professionale sia per cultura territoriale (sono di Brescia…), ne parlo proprio con un certo pudore, ma vorrei pur sempre spendere due parole.
Molti confondono il vigore con il rigore. La quantità con la qualità.
Pur non avendo validi motivi per trattenersi all’infinito presso le proprie postazioni, continuano imperterriti ad affannarsi appresso a compiti che talvolta sono anche trascurabili. Spesso lo fanno per amore incondizionato verso il proprio lavoro (amo il mio mestiere e so cosa vuol dire, ogni tanto ci casco anche io). È tanta e tale la passione che capita di perdere la cognizione del tempo e soprattutto degli aspetti decisivi.
Ma altrettanto spesso l’origine di questa abitudine è da ricercarsi altrove. La sensazione di “essere sempre sul pezzo” perché si passano ore infinite in ufficio o in reparto, fa sentire molte persone particolarmente efficienti ed efficaci. “Sono il primo ad arrivare la mattina e chiudo sempre io la sera tardi. Cos’altro volete da me, con tutto quello che faccio?”
C’è la convinzione che ad un massiccio numero di ore trascorse al lavoro corrisponda un massiccio valore prodotto, in termini di risultati. Non sempre è così. Anzi, raramente mi permetto di dire.
Dopo una certa soglia di ore al lavoro, il nostro rendimento inizia a calare fino a precipitare letteralmente. Errori, distrazioni, dimenticanze iniziano a fare la loro comparsa, vanificando i nostri sforzi.
Vorrei essere molto chiaro, a scanso di equivoci. Non sto dicendo che si debba “stare indietro” con il lavoro, io stesso trascorro giornate e serate intere in modalità operativa. Ammiro chi lavora tanto e sodo, soprattutto chi lavora bene. E cerco di imparare da queste persone. Cerco di lavorare sempre di più ma sempre meglio.
Ecco perché vorrei sottolineare quanto insidioso possa essere questo approccio, per la nostra carriera e per la nostra vita, se non opportunamente gestito con pause strategiche e concentrando quando possibile (di solito lo è) le nostre energie nelle ore più produttive. Andare sistematicamente oltre rischia in concreto di essere controproducente.
Mi viene sempre in mente un imprenditore che per me è stato ed è una guida. “Io dico ai miei collaboratori di andarsene a casa dopo una certa ora. Come possono pensare di essere performanti ai massimi livelli, come serve, dopo 10-12 ore di lavoro serrato? Non ha senso. Molto meglio fermarsi prima e andarsene per tornare la mattina successiva freschi e lucidi”.
Poi c’è un altro aspetto, ancor più importante.
Ho incontrato e incontro moltissime persone. Professionisti e imprenditori straordinari, talenti veri, con una carriera folgorante, un modello vero e proprio per me.
Diversi tra loro mi hanno sorpreso confessandomi di avere dei rimpianti, di non aver visto i figli crescere, di non aver fatto piccoli o grandi viaggi, di non aver dedicato cura a loro stessi come alle persone più care, di essersi ritrovati dopo anni e anni di lavoro come se fossero “vuoti”.
In un solo concetto, di non aver vissuto. Con un “dosaggio” un po’ più equilibrato tra lavoro e casa, avrebbero ottenuto gli stessi risultati professionali, se non superiori, vivendo maggiormente la propria vita. Così dicono.
Oltre a non portare risultati ottimali in termini di performance e risultati, l’abitudine di trascorrere la stragrande maggior parte del tempo al lavoro può essere qualcosa di molto più insidioso.
“Una prassi ladra, ruba la vita”, mi ha riferito uno di loro.